Io a sta cosa che ognuno ha la propria strada scritta dentro ci credo davvero. Ci credo a modo mio ma ci credo. Mi dico che tutto accade per una ragione e ci credo davvero. Mi dico che nulla è casuale e ci credo davvero. Mi dico che alla fine forse non esistono scelte sbagliate, perché anche quelle che lo sembrano qualcosa di buono possono lasciarcelo, e ci credo davvero.
Solo che a volte è abbastanza difficile comprendere qual è la motivazione dietro ogni cosa e qual è la strada da seguire -o da lasciare.
Ho letto una frase bellissima, mi è piaciuta tanto perché rispecchia quello a cui penso e che mi affascina da sempre: il mondo è pieno di storie che in realtà sono una storia sola.
O qualcosa del genere.
Il senso è, o dovrebbe essere, abbastanza chiaro.
Il nostro destino è inevitabilmente legato al destino di molti altri ed in qualche modo questi destini si cambiano, foss’anche un solo attimo per volta, a vicenda.
Tutte le persone che incontriamo, io penso, anche solo per qualche giorno, per qualche minuto, hanno il potere di cambiarci potenzialmente la vita intera.
Si inizia piano, piano, sia chiaro, non è che la nostra esistenza viene stravolta ogni giorno completamente dal primo che passa. O dal secondo. Ma piano, piano, un evento ne influenza un altro e, sempre piano, piano, il nostro destino cambia così inevitabilmente.
Magari, semplicemente, chiediamo una informazione per strada alla persona sbagliata che ci fa perdere tempo, arriviamo in ritardo alla stazione, perdiamo il treno, perdiamo l’occasione di fare quel colloquio che intanto è stato sostenuto da qualcuno di più brillante arrivato al momento giusto ed un pezzo della nostra vita presente, e quindi futura, sarà cambiata. E l’avrà influenzata lo sconosciuto sbagliato a cui abbiamo chiesto l’informazione per strada.
Che va bene, si, la sto facendo forse più drammatica del dovuto però il senso lo avete compreso, no?
E non è così sbagliato come concetto, no?
È che ultimamente scrivo poco ma penso tanto. E mi sono resa conto che penso ad un tema ricorrente, che è quello della casualità e del destino, appunto.
Non faccio altro che ripetermi la stessa cosa, che poi è quello che ho scritto in questo post. Ed in molti di quelli precedenti, a ben guardare.
Non è che stia cercando di auto-convincermi. È che sono più che mai, ora, affascinata da questa idea dei mille pezzi di puzzle degli altri che si incastrano ai nostri.
Forse perché negli ultimi tempi, grazie al lavoro, la mia strada ha incrociato quella di tante persone diverse, a volte per percorsi abbastanza lunghi, altre per pezzi irrisori. Quindi più di una volta mi sono trovata a chiedermi, come ha fatto Tiziano, cosa gli altri di me hanno preso ed a me di loro cos’è rimasto.
Le risposte che mi sono data sono state a tratti soddisfacenti, a tratti tristi, a tratti tali da regalarmi un bel sorriso, una bella consolazione.
Perché è proprio vero che, alla fin, fine, nella vita non si perde davvero mai. Si impara e basta.
Io a volte mi sono divertita di più a non imparare mai, altre non ho potuto fare a meno. Altre ancora non ci ho nemmeno pensato ed ho lasciato che tutto si fondesse, si accartocciasse su sé stesso e sfumasse gradualmente fino a sparire per sempre. Per poi magari ricomparire furiosamente quando meno me lo aspettavo, ma questa è un’altra storia. È quasi sempre un’altra storia.
Però sono viva, piena di sbagli e di cose giuste, ma sono viva. E questa è la cosa più importante. La sensazione più importante.
Buona giornata, a chi non è come neve...
venerdì 15 novembre 2019
mercoledì 6 novembre 2019
Di un libro nuovo
Qualche domenica fa ho fatto una cosa stupenda che non facevo da tempo. Ho letto. Ho letto un libro tutto d’un fiato. E mi è piaciuto. Mi è piaciuto averlo letto e quello che ho letto. E quello che ho letto, tra l’altro, piacerebbe (e piace) anche a Franco, per dire.
In una di quelle pagine si parlava della paura. E del vetro.
Che forse vi starate chiedendo cosa c’entrano l’una con l’altro ma fidatevi, c’è del genio in questo binomio. Un genio che avrei voluto avere io, ma questa è sempre un’altra storia.
Comunque, molto semplicemente.
Se tu hai paura, se tu hai una paura, inconsciamente (in realtà nemmeno tanto) stai rinunciando a qualcosa. Alla cosa di cui hai paura, appunto. E se tu hai paura, se tu hai una paura, quella cosa cerchi di evitarla in tutti i modi. La tieni lontana, forse fingi di disprezzarla, addirittura.
E però c’è il fatto che siamo esseri umani ed in quanto tali spesso siamo attirati, un po’ per autolesionismo, un po’ senza un altro motivo abbastanza affascinante dall’essere scritto dalla sottoscritta, dalle cose che non vogliamo o che non vogliamo volere.
È lo stesso concetto per cui vogliamo -o non vogliamo volerlo- guardare gli horror, gli splatter; lo stesso concetto per cui, quando c’è un incidente per strada, siamo spaventati, speriamo che nessuno si sia fatto male ma una piccola parte di noi, nascosta bene, bene, ci costringe a cercare una eventuale macchia di sangue, un corpo sull’asfalto. Non è che vogliamo davvero vederlo, non desideriamo che qualcuno ci sia davvero, sull’asfalto, ma perché allora ci giriamo in quella direzione?
E proprio qui entra in gioco il vetro, quello che in teoria non dovrebbe c’entrare nulla con la paura.
Perché se tu hai paura, se tu hai una paura, inconsciamente stai rinunciando a qualcosa, la stai allontanando. Ma se tu potessi mettere un vetro tra te e la cosa di cui hai paura, la potresti osservare (perché, in nome di quell’autolesionismo e di quel motivo non abbastanza affascinante dall’essere scritto dalla sottoscritta, ti verrebbe la voglia di guardare lo stesso) senza però rischiare nulla, con calma, dedicandoti ad ogni suo piccolo particolare.
Lo stesso concetto che ci spinge (non a me, che non approvo questo genere di costrizione) allo zoo a vedere i leoni; ne abbiamo tutti paura ma che importa se tra noi e loro c’è un vetro? Guardiamo, ci siamo così vicini, per un po’ forse riusciamo anche a metterla da parte, la nostra paura…ma la verità, la triste verità, quella che rovina un po’ la magia che mi ero creata, è che quando il vetro scompare la nostra paura rimane, invece, là dov’era. Esattamente là dov’era.
E poi, la scorsa mattina, ho tagliato corto decidendo che la paura non esiste. Non solo perché mi fido di Tiziano. Non esiste la paura, esiste solo la disabitudine.
Non è che avessi paura di vivere in una città nuova, grande, piena di persone e di strade da sbagliare e di mezzi da aspettare; ero solo non abituata a vivere questo tipo di realtà.
Non è che avessi paura di perdermi, è che non ero abituata a lasciare che accadesse.
E tutte le -non- paure che ancora ho sono solo abitudini che non mi sono decisa a fare mie, almeno per ora.
Che questo è un pensiero che mi solleva, mi alleggerisce, ma non troppo ché un po’ di disabitudine a metterti dei confini un po’ serve, eh. Mica poi c’è bisogno di andare a conquistare il mondo.
O si?
Una buona giornata, a chi non è come neve…
In una di quelle pagine si parlava della paura. E del vetro.
Che forse vi starate chiedendo cosa c’entrano l’una con l’altro ma fidatevi, c’è del genio in questo binomio. Un genio che avrei voluto avere io, ma questa è sempre un’altra storia.
Comunque, molto semplicemente.
Se tu hai paura, se tu hai una paura, inconsciamente (in realtà nemmeno tanto) stai rinunciando a qualcosa. Alla cosa di cui hai paura, appunto. E se tu hai paura, se tu hai una paura, quella cosa cerchi di evitarla in tutti i modi. La tieni lontana, forse fingi di disprezzarla, addirittura.
E però c’è il fatto che siamo esseri umani ed in quanto tali spesso siamo attirati, un po’ per autolesionismo, un po’ senza un altro motivo abbastanza affascinante dall’essere scritto dalla sottoscritta, dalle cose che non vogliamo o che non vogliamo volere.
È lo stesso concetto per cui vogliamo -o non vogliamo volerlo- guardare gli horror, gli splatter; lo stesso concetto per cui, quando c’è un incidente per strada, siamo spaventati, speriamo che nessuno si sia fatto male ma una piccola parte di noi, nascosta bene, bene, ci costringe a cercare una eventuale macchia di sangue, un corpo sull’asfalto. Non è che vogliamo davvero vederlo, non desideriamo che qualcuno ci sia davvero, sull’asfalto, ma perché allora ci giriamo in quella direzione?
E proprio qui entra in gioco il vetro, quello che in teoria non dovrebbe c’entrare nulla con la paura.
Perché se tu hai paura, se tu hai una paura, inconsciamente stai rinunciando a qualcosa, la stai allontanando. Ma se tu potessi mettere un vetro tra te e la cosa di cui hai paura, la potresti osservare (perché, in nome di quell’autolesionismo e di quel motivo non abbastanza affascinante dall’essere scritto dalla sottoscritta, ti verrebbe la voglia di guardare lo stesso) senza però rischiare nulla, con calma, dedicandoti ad ogni suo piccolo particolare.
Lo stesso concetto che ci spinge (non a me, che non approvo questo genere di costrizione) allo zoo a vedere i leoni; ne abbiamo tutti paura ma che importa se tra noi e loro c’è un vetro? Guardiamo, ci siamo così vicini, per un po’ forse riusciamo anche a metterla da parte, la nostra paura…ma la verità, la triste verità, quella che rovina un po’ la magia che mi ero creata, è che quando il vetro scompare la nostra paura rimane, invece, là dov’era. Esattamente là dov’era.
E poi, la scorsa mattina, ho tagliato corto decidendo che la paura non esiste. Non solo perché mi fido di Tiziano. Non esiste la paura, esiste solo la disabitudine.
Non è che avessi paura di vivere in una città nuova, grande, piena di persone e di strade da sbagliare e di mezzi da aspettare; ero solo non abituata a vivere questo tipo di realtà.
Non è che avessi paura di perdermi, è che non ero abituata a lasciare che accadesse.
E tutte le -non- paure che ancora ho sono solo abitudini che non mi sono decisa a fare mie, almeno per ora.
Che questo è un pensiero che mi solleva, mi alleggerisce, ma non troppo ché un po’ di disabitudine a metterti dei confini un po’ serve, eh. Mica poi c’è bisogno di andare a conquistare il mondo.
O si?
Una buona giornata, a chi non è come neve…
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